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Pallottini: “I problemi dei ragazzi? Non nascono a scuola.”

San Benedetto del Tronto | La prof.ssa Graziella Pallottini ha sempre avuto la vocazione all’insegnamento. E’ entrata subito in ruolo dopo la Laurea in Lettere e nel 1982, ha superato li concorso ordinario ed è diventata Preside. E’ Dirigente dell’IPSIA dal settembre scorso.

di Francesco Tranquilli

Pallottini

L’Istituto Professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato conta 900 iscritti suddivisi in otto indirizzi.. Inoltre, da questa scuola dipende la sede staccata di Comunanza che conta 5 classi dell’indirizzo Meccanico. Dopo una leggera flessione delle iscrizioni a vantaggio dei licei, dovuta all’incerta sorte che la riforma Moratti pareva assegnare ai Professionali, il numero degli iscritti è tornato a salire.

Com’ è cambiata la scuola pubblica negli ultimi 15-20 anni, vista dall’interno? E quale funzione ha oggi la scuola nella società?
Ha una funzione Insostituibile. Prima di tutto perché gli standard a livello nazionale vanno garantiti. Allo stesso tempo, però, l’autonomia che l’attuale ordinamento garantisce ai vari istituti, facoltà che non è mai stata sfruttata fino in fondo, serve a consentire ad ogni scuola la possibilità di commisurare l’offerta formativa alle esigenze del territorio e degli studenti.

Non tutte le scuole hanno colto questa possibilità, perché gli uffici centrali e periferici hanno sempre remato contro, imponendo controlli, direttive, disposizioni continue che hanno un po’ soffocato queste iniziative. Una riforma della Scuola Superiore è senz’altro necessaria, sono ottant’anni che siamo fermi. Invece abbiamo bisogno di profondi rinnovamenti, nei programmi, nell’organizzazione generale, nelle materie di studio. Invece siamo ingabbiati, ingessati in regole rigidissime. Per cercare di cambiare dal basso ci vuole un coraggio da leone.

E ci vorrebbe anche un riconoscimento economico adeguato. Faccio un esempio: una mia collega omologa francese guadagna esattamente il triplo di me, più quattordici mensilità e l’alloggio a disposizione.

Ma non è che noi in Italia lavoriamo di meno, siamo soltanto meno riconosciuti economicamente e socialmente. Lo stesso vale per i professori. Lavorino di più, se necessario, ma ben retribuiti. Quando ho cominciato la pensavo già così, e in tanti anni non si è fatto nessun passo avanti nemmeno in questo senso. In realtà, in Italia nessuno vuole investire nella scuola. E’ un’illusione che le scuole private siano migliori. Sono dei diplomifici. Chi ha perduto uno o due anni nella scuola pubblica non diventa tutt’a un tratto così bravo nelle private da recuperare con poco il tempo perso.

L’ex ministro Moratti aveva provato a svecchiare la situazione, e la sua riforma ha avuto almeno il merito di costringere le varie parti a confrontarsi e a discutere. Pro o contro, si è stati costretti a discuterne. Il cambio di governo purtroppo ha avuto un effetto simile alla fine di una mareggiata. Sono rimasti solo detriti sulla spiaggia, ma è come se la scuola fosse ricaduta all’indietro. Non c’è stato cambiamento essenzialmente perché gli operatori della scuola si sentono ormai sviliti e scoraggiati, privi di qualunque motivazione al cambiamento.

Ma le generazioni cambiano, e così le attese culturali dei ragazzi, mentre noi tiriamo avanti ripetendo sempre le stesse cose. I cambiamenti che facciamo non sono sostanziali. Per esempio, non esiste una valutazione degli insegnanti. Una volta il Preside aveva la facoltà di emettere un giudizio, “valente”, “ottimo”.

Gli insegnanti erano tenuti a dimostrare qualcosa, anche davanti ai colleghi. Era un modo di riconoscere il merito e la professionalità. Oggi i docenti buoni, ottimi o pessimi sono tutti sullo stesso piano. Anche quelli che quotidianamente causano danni immani. Se non si è capaci di dialogare con i ragazzi, non si potrà trasmettere loro nulla.

Chi è, secondo lei, l’insegnante e autorevole?
Le persone capaci, volenterose, efficaci e preparate, che ottengono grandi risultati dai loro studenti, non sono più del 50% e non sono premiate come dovrebbero. Continuano a svolgere bene il loro mestiere per dignità, per professionalità, non certo per quei pochi spiccioli del fondo d’Istituto. Purtroppo molti entrano nella scuola come ripiego; ma fare l’educatore non è un mestiere come un altro, non si può fare come seconda scelta.

E toccando l’argomento dei criteri di valutazione, io ritengo che parlare di valutazione oggettiva sia un’assurdità. Qualunque parametro vogliamo assumere, la valutazione avrà sempre un fattore di soggettività imprescindibile e indispensabile. La docimologia è chiara, in proposito. A meno che si voglia valutare solo con le macchine, che per definizione non possono tener conto del fattore umano.

E’ ridicolo, ad esempio, che certi sindacati si oppongano a che il Dirigente entri nella valutazione dell’insegnante. E chi dovrebbe farla, questa valutazione, solo dei soggetti esterni? E’ il Dirigente che conosce come l’insegnante lavora, come si rapporta con i ragazzi. Mentre non è un indicatore attendibile la statistica dei risultati. Quando passo per le classi a consegnare le pagelle, se vedo degli “uno”, mettiamo in matematica, chiedo al ragazzo: ma come mai?

Normalmente la risposta è: il prof non c’entra, è bravissimo, ma io non la voglio studiare. Certo, se le insufficienze gravi sono numerosissime, forse è un problema di metodo di insegnamento. Ma per concludere, la valutazione è un aspetto complicato e delicato, eppure non si può più rimandare la sua introduzione nell’ordinamento. E poi agli insegnanti bisogna proporre dei traguardi, la possibilità di scatti di carriera effettivi anche attraverso esami, come in altri paesi europei. Non si può restare professori tutta la vita, sempre uguali, sempre allo stesso livello.

Venendo all’autorevolezza, scrivere alla lavagna la formula di matematica o di fisica, senza fornire il debito aiuto alla crescita e alla maturazione degli studenti, non serve, non basta. Dobbiamo fornire dei modelli di credibilità e di coerenza. In ciò risiede l’autorevolezza dell’insegnate. Non siamo perfetti, ma dobbiamo porci verso i ragazzi in modo giusto, mettendosi in gioco, in discussione, operando secondo quello in cui crediamo.

Problemi disciplinari: quali e quanti sono, come vengono affrontati e con quali risultati?
Premetto che i problemi disciplinari non sono causati, come si sente dire, da un “malfunzionamento” della scuola. Noi non viviamo in una torre d’avorio, né siamo un’isola felice. Qui dentro accedono tutti i problemi che affliggono la società ogni giorno. Già quando ero nella scuola media si poteva rilevare come i ragazzi, una generazione dopo l’altra, fossero sempre più irrequieti, più fragili psicologicamente, meno scolarizzati. Una mia collega una volta mi diede una grande lezione di vita quando, chiacchierando, mi trovavo a lamentarmi dei problemi che avevo nel rapporto con mia figlia.

Mi chiese: ma la vuoi perfetta? I ragazzi di oggi semplicemente non possono essere conformi a quei modelli di comportamento, di attenzione, di concentrazione che noi proiettiamo su di loro. Siamo noi che dobbiamo trovare forme nuove per responsabilizzarli sempre di più. Per questo gli insegnanti devono lavorare ancora di più sui ragazzi, tramite il dialogo, il ragionamento, rinnovando ogni giorno il patto formativo, perché il nostro compito è educare il ragazzo, non il genitore.

E in questa scuola i problemi disciplinari, smentendo totalmente la nomea che ingiustamente ci portiamo addosso, non sono così gravi come si dice, e come io stessa temevo prima di venirla a dirigere. A distanza di sei mesi posso affermare che i nostri problemi sono quelli di ogni altra scuola. Quanto ai cellulari, si sa che qui sono vietati, se serve vengono ritirati, è una continua lotta ai soliti furbi, ma in generale i nostri ragazzi sono meravigliosi. Quando io ci ragiono, e li porto a riconoscere di aver sbagliato, le cose cambiano in meglio.

Quanto collaborano i genitori all’educazione dei ragazzi, e quanto invece la” intralciano”?
Oggi quasi tutti i genitori vogliono proteggere i propri figli in tutto e per tutto, liberandoli dalla fatica, dal sacrificio, ma questo è un errore grandissimo. Noi operatori della scuola, però, dobbiamo tenere sempre presente che, quando abbiamo a che fare con ragazzi dai quattordici anni in su, non si può più pretendere di cambiare il modo di pensare di un genitore che è evidentemente corresponsabile delle debolezze del proprio figlio.

E’ col ragazzo che ci dobbiamo rapportare, comunicando, trasmettendo valori anche coll’esempio personale. I genitori hanno in mente la scuola dei loro tempi, che oggi non esiste più. Non vogliono problemi, vorrebbero che i propri figli fossero tutti tranquilli e ben istruiti. Tuttavia, se c’è dialogo fra scuola e famiglia, il genitore non rifiuta il nostro aiuto. I problemi vanno esposti senza giudicare, ma collaborando per aiutare il ragazzo o la ragazza, insieme, con pazienza. I genitori talvolta all’inizio sono prevenuti, magari attaccano per difendersi. Purtroppo di rado i genitori hanno un’opinione oggettiva su come sono i propri figli al di fuori dell’ambiente familiare, e tendono a difenderli a spada tratta a qualunque costo. C’è allora bisogna di ancora maggior comprensione, calma, ragionevolezza perché queste difese aprioristiche vengano rimosse.



“Scuola-azienda”, si diceva qualche anno fa (pochi): ma non sono due istituzioni radicalmente opposte?
E’ un’etichetta senza senso. La scuola ha una sua organizzazione, come ogni famiglia, peraltro. Oggi come oggi se non siamo attenti nella gestione delle risorse umane e soprattutto finanziarie, non riusciamo ad andare avanti e dobbiamo dichiarare bancarotta. Da questo punto di vista, dunque, noi siamo un’azienda. Ma non una che sforna prodotti. Noi lavoriamo sulle persone: i risultati del nostro lavoro sono a lungo termine, e ne vedremo i frutti fra anni.

Noi lavoriamo per il futuro. Oggi possiamo valutare i risultati di profitto nelle varie discipline, ma il risultato profondo del tuo lavoro lo vedremo solo molto più in là. Vediamo i genitori di oggi, che sono i nostri alunni di ieri: se tiriamo un bilancio, possiamo dire di aver fatto un buon lavoro? Se c’è tanta diffidenza verso la scuola pubblica, se i genitori non riescono a trasmettere valori ai loro figli, noi a nostro tempo abbiamo fatto un buon lavoro come scuola? C’è da chiederselo seriamente.


Perché un ragazzo dovrebbe iscriversi a questo Istituto e non ad un altro?
In Italia mancano i tecnici specializzati, e la richiesta delle aziende è sempre molto forte, da tecnici di primo livello fino agli ingegneri. Gli alunni possono essere qualificati operai specializzati dopo tre anni di scuola, oppure diventare tecnici proseguendo per altri due anni, e magari iscriversi all’università. La funzione di questo Istituto nel territorio è importantissima. In particolare siamo l’unica scuola che prepara gli odontotecnici e che ha un indirizzo di Attività Marittime.

Siamo una scuola molto articolata, molto ricca, molto attiva e innovativa, legata a doppio filo con le imprese, locali e no. Per cui ciò che alla scuola manca a livello di strutture, per insufficienza delle risorse, i nostri ragazzi possono trovarlo nella collaborazione con le aziende che sempre più spesso chiedono di collaborare alla formazione dei tecnici specializzati di domani.

Così, spessissimo i neo-diplomati trovano un immediato sbocco lavorativo nelle stesse imprese che hanno avuto modo di conoscerli. Ma l’IPSIA ha anche una funzione culturale ben precisa, che svolge indirizzando i giovani non solo in termini teorici ma soprattutto pratici. E trovare lavoro è praticamente assicurato, in posizioni molto gratificanti anche a livello remunerativo. Un tecnico uscito da questa scuola guadagna da subito quello che io guadagno oggi, a fine carriera.


Un bilancio della sua attività?
Vorrei essere vista come una persona che ama molto i ragazzi, ama una scuola organizzata, che sia all’avanguardia e innovativa. Io in questa scuola ci sto con lo stesso entusiasmo di quando sono entrata in una classe per al prima volta, e ci terrei ad essere utile ai miei studenti.. E’ questo che mi sostiene. E ci tengo a ribadire che gli studenti non sono una “massa indifferenziata”, ma hanno ciascuno una personalità che va valorizzata e considerata. Noi abbiamo l’obbligo di “riconoscere” ogni alunno come persona. Perché chi lavora nella scuola non deve mai scordare che “noi” siamo qui per “loro”.

04/04/2007





        
  



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