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Riletture su Gesù Cristo

San Benedetto del Tronto | "Quello che disse fuori dai vangeli"

di Tonino Armata

 
Ho un sentimento trasgressivo, confesso. Questo libro importante: Le parole dimenticate di Gesù, (Fondazione Lorenzo Valla, pagg. 650, € 27), è un libro che per troppi versi non mi riguarda. Epperò l’ho letto, questo libro con tanta cura costruito da Mauro Pesce, e ne sono rimasto incantato. Incantato, intendo dalle parole di Gesù, che Pesce definisce “dimenticate”.

Pesce spiega quel che intende: intende le parole che non sono contenute nei quattro Vangeli canonici, le quali sono state però tramandate da molte opere cristiane in lingua greca e latina. Chi lo leggerà, potrà andare alle pagine XII e seguenti della bell’introduzione, dove il suo pensiero è così ben detto che non vale la pena che io lo ripeta.
Ripeto invece che questo libro mi ha incantato, anche perché, da neo-pagano quale sono, ho da sempre avuto una passione per Gesù. Da sempre l’ho preferito al Dio immaginato nell’archetipo del Padre, il Figlio. Quel Dio Senex, onnisciente, onnipotente, barbuto, al governo di principi astratti di giustizia, moralità, ordine, senz’altro condivisibili, l’ho sempre sentito lontano. Eccelso, si, ma freddo, collocato in una remota trascendenza. Lo descrive sotto l’archetipo di Saturno in pagine indimenticabili James Hillman in Trame perdute, un vecchio libro di Cortina editore.
E’ accaduto poi, grazie ad operazioni di decostruzione della cultura in alto loco, e forse anche grazie ai crolli delle nostre singole esistenze individuali, che questo gran Dio Senex abbia cominciato a vacillare. Non che la sua potenza archetipica potrà mai morire: non è questo che voglio dire, ma un dio giovane, ripeto, a me personalmente commuove infinitamente di più. Un dio figlio lo sento più vicino. Del figlio condivido la passione.
Amleto, ad esempio sono convinto che Shakespeare l’ha pensato come la tragedia del figlio. Di fatto (se ci riflettete) Amleto non conosce altro fato e non dimostra altra virtù che quella (non a caso, dopo di lui chiamata “amletica”) di riconoscersi figlio nel trauma che tale condizione comporta. E, si badi bene, lo strazio non vale solo per lui, figlio di un re good enough (cioè non troppo male, che è meglio di un padre ottimo) e di una regina senz’altro imbarazzante, troppo di tutto (troppo sexy in particolare); ma vale più o meno sempre, per ogni creatura che nasce; lo strazio, intendo, di sentirsi “gettati” nel mondo. Volere ciò che è stato (se non altro concepito), a questo punto, è il compito.

E’ il compito che s’impone ad Amleto, in quanto figlio. E poiché Amleto lo assume, Amleto è cristiano: come ben intende Benjamin nelle pagine finali del suo Dramma tedesco barocco. E stormi d’angeli lo solleveranno al cielo, portandolo al cospetto del vero padre: così profetizza l’amico Orazio (per altro di professione stoica!).
Certo poiché redentore, Amleto fallisce. Prova a rimettere le cose in sesto in Danimarca, ma non ci  riesce. Rimane però che tornando il Padre può in ogni modo vantare l’obbedienza alla sua parola. Obbediente al padre è anche Gesù il quale, come sappiamo viene per predicare la lieta Novella: renderà tutti salvi. La salvezza passerà attraverso la sua persona; attraverso la sua persona Dio concederà ogni dono. Dono è il figlio, dono della grazia divina è Gesù. Grazie a lui non più né servi, né schiavi, saremo per l’appunto liberi, vale a dire figli. E giacché figli, eredi; il che implica un dono, la libertà di ubbidire al Padre fa parte del dono. Su questo tema scrive pagine eccellenti Massimo Cacciari nel suo Della cosa ultima, uscito un po’ di tempo fa da Adelphi. L’ho avuto nella mente mentre leggevo il volune di Mauro Pesce.
Mi sono spesso chiesto se non fosse un uso improprio della parola di Gesù scambiare il suo contenuto per poetico. L’ho rifatto oggi di fronte a queste sue “nuove” parole: il loro senso, mi sono chiesto, non sarà diverso a seconda che sia letto in rapporto alle verità storiche, politiche, filosofiche che vuole comunicare? Dunque, come mettersi di fronte a queste parole? Con quale forma d’attenzione? Esse aprono molteplici sentieri.

C’è senz’altro in bell’evidenza un intento (che a me interessa molto, e che lo assolva la letteratura o la religione per me non fa poi molta differenza), e in altre parole: la formazione dell’anima. E’ spesso ribadito nelle parole di Gesù questa volontà che le sostiene. In tal senso, Gesù offre una nuova paideia. Addirittura, secondo Clemente Alessandrino, invita la gioventù del tempo alla vita gnostica: esorta a cercare la verità con i fatti e con le parole, ad evitare dalle lusinghe mondane. Vivere a Dio è digiunare quanto alle cose del mondo.
E se è senz’altro vero che la parola di Gesù è immaginifica, e poiché tale richiede l’impiego dell’immaginazione, pure riguardo all’immaginazione, chiede di tenerla a freno. E insieme di tenere a freno le passioni. La formazione dell’anima, o educazione, è pensata come una correzione. In più, sono parole che Gesù “predicava”. Il che è diverso da “dire”: ci sono tanti modi di mettere in azione la capacità linguistica di cui siamo, poiché parlanti, dotati; nel caso di Gesù, egli educava anche nel senso che formava all’ascolto della parola. Come sempre del resto, ogni creatore: un uomo che abbia da dire qualcosa di nuovo, come altrimenti può essere ascoltato, in un primo tempo, se non per amore, da chi lo ami? Egli deve dunque educare all’ascolto.
Il linguaggio è un bene prezioso, racchiude in sé i pensieri. Grazie al linguaggio viviamo immersi in un ambiente intellettuale, scambiando idee, sogni: il linguaggio crea fratellanza tra gli uomini. E’ anche pericoloso quando si fa meccanico, incontrollato automatismo. O quando trasformato in testo canonico c’è imposto come una credenza. O c’è somministrato come una dottrina.
Leggendo questo bel volume scopriamo quanto Gesù ha dilatato i confini della lingua, quanta ricchezza ci ha donato. Scopriamo anche l’orizzonte d’attesa in cui ha vissuto e parlato e sognato e educato i suoi discepoli. Grazie alle note di Pesce, diventiamo consapevoli dell’incredibile vitalità del primo cristianesimo. Pesce ci da un’immagine per la sua opera di ricostruzione; parla di un vasto delta in cui sfocia, dopo essersi diramato in tanti bracci, l’alveo della parola di Gesù. La quale parola prima scorre in forma orale, poi scritta, finché nei secoli a venire, distanziandosi dalla sua fonte, si sedimenta in rappresentazioni via via più fisse.

La sua rilettura di circa trecentocinquanta testi di più d’ottanta autori (solo latini e greci) i quali trasmettono parole e discorsi attribuiti a Gesù, obbligheranno gli studiosi a riesaminare la storia della tradizione evangelica.
A noi semplici lettori curiosi svelano la poliedrica verità del maestro, nel mondo in cui i diversi discepoli tramandarono e tradiscono la sua immagine. Alla predicazione di Gesù attinsero e alla sua azione s’ispirarono gruppi di seguaci molto diversi tra loro, sì che fu diverso il Gesù dei Paolinisti e quello dei Nazareni e in diverse comunità vigevano diversi vangeli.

E’ vero: sono pochi i frammenti dei vangeli degli Ebrei, dei Nazareni, degli Egiziani e degli Ebioniti. Si rischia forse di sopravvalutarne l’importanza. Ed è anche vero che pochissimi ci sono pervenuti integri. Ma è altrettanto vera la massa di testi protocristiani non testamentari che c’è giunta, anche per frammenti. A testimonianza dell’incredibile vitalità del primo cristianesimo. E della specialissima personalità di Gesù.

25/03/2005





        
  



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